Palazzo Bonaparte ospita Edvard Munch
La mostra di Munch a Roma, allestita su due interi piani, è un viaggio nel tempo ma soprattutto la metamorfosi dell’animo umano.
Vanta ben cento opere, messe insieme da Arthemisia Arte e dal Museo Munch di Oslo.
Il Palazzo Bonaparte si trasforma nello scenario suggestivo di quell’urlo interiore, diventato famoso in tutto il mondo.
Ma l’urlo di Munch non è solo nel quadro o nella serie di bozzetti e litografie che ne portano il nome. Munch gridò durante tutta la sua vita, a partire dalla giovane età, quando a cinque anni perse la mamma, e per tutto il periodo successivo durante il quale ebbe dei veri e propri travagli.
Munch: l’osservatore silenzioso
Edvard Munch affrontò ogni sofferenza affondando la mente nella pittura e studiando il suo io attraverso l’arte. Voleva liberarsi da ciò che provava e indagarsi nello spirito.
Sposò idealmente le raffigurazioni nordiche, dove la malattia era dramma, e scavò nel sentimento di perdita.
Li sentiva vicini come temi da ritrarre, ma poi trovò un suo modo di esprimersi. L’approccio non era quello di un malato ma di chi aveva assistito alla “malattia” e poi alla morte dei sui familiari, cioè di un osservatore silenzioso.
Dopo sua madre e sua sorella, anche il padre scomparve, mentre Edvard era lontano e non potè partecipare fisicamente al suo funerale.
Un destino triste toccò anche al fratello che morì quasi trentenne, e a Laura Munch, l’ultima delle sorelle, che venne colpita da una grave malattia mentale.
Elemento dominante nella pittura di Munch: l’incomunicabilità
La verità sulla pittura di Munch è questa trama di morte che lo perseguitò.
Da qui però anche la cifra stilistica che lo contraddistingue: sia le ombre allungate dietro le figure in primo piano, che i rivoli di pittura sui quadri, altro non sono che il grido dell’artista, i corpi dei familiari che si dissolvono, i fantasmi che si palesano e la solitudine che avanza inghiottendolo.
Peraltro, anche il modo che aveva di raffigurare le persone all’interno di una scena, è diventato un unicum: i soggetti ritratti non comunicano tra loro, se ne stanno -anzi- separati.
Il silenzio permea ogni attimo impattando sull’animo di chi guarda.
I buchi neri
Nei quadri di Munch si rintraccia sempre un’atmosfera emotiva riconducibile ai ricordi dell’artista. Che non sono ricordi nitidi ma stemperati. Munch dipingeva solo quello che affiorava nella sua mente ed è per questo che non troviamo una definizione dello spazio, i colori sono sbiaditi e le linee fluide.
Lo spazio, anzi, si traduce in un apparente vuoto, e quei buchi neri della sua mente diventano inevitabilmente i protagonisti reali, più dei personaggi.
Il dolore è in quegli spazi, e aleggia come uno spirito maligno e crudele.
LA MORTE NELLA MOSTRA DI MUNCH A ROMA
Laura Cathrine Bjølstad e Sophie Munch, rispettivamente madre e sorella di Edvard, sono al centro di questa indagine sulla morte. Tutto ha origine da loro.
Ma prosegue poi con Andreas Munch e Christian Munch, cioè il fratello e il padre di Edvard, diventando sempre più una ferita aperta.
E per ultima Laura Munch, una sorella danneggiata, gli occhi spenti, l’animo malinconico. Di lei Munch scrisse: “Annega nella sua stessa immobilità”.
La malattia, quando dell’uno quando dell’altra, provocarono nell’artista grandi baratri.
Morte nella stanza della Malata
Il quadro “Morte nella stanza della Malata” è la fotografia del sentimento doloroso che Munch trattenne dentro di sé.
Sophie siede di schiena, Munch ce la nasconde, o la nasconde a se stesso. Nonostante ciò lui è voltato verso di lei, e verso quel passato tormentato. Perciò nemmeno di Munch leggiamo l’espressione.
Di fianco a Sophie attendono il padre e la zia Karen. Quest’ultima, sorella della madre, si era presa cura di loro ed è a lei che dobbiamo “l’artista”, fu la sua prima sostenitrice.
Le altre due sorelle sono in primo piano: Inge fissa con gli occhi cerchiati lo spettatore, mentre la piccola Laura siede contrita. Andreas è di lato, sta lasciando la stanza.
Ognuno di loro è ingabbiato dentro il proprio spazio, in una totale incomunicabilità con il resto della famiglia.
Munch raffigura un momento tragico, teatralizzandolo. L’aplomb dei presenti, soprattutto, sembra cogliere l’attimo esatto in cui un sipario si apre e gli attori sono lì dietro, pronti a interpretare il loro ruolo.


Lotta contro la Morte
Siamo ancora davanti al trapasso di Sophie e “Lotta contro la Morte” è tragico.
Il punto di vista è lasciato proprio alla morte, o alla morente.
Le pareti, con l’irraggiamento della luce, diventano quasi palpabili, anzi, i disegni sulla carta da parati sembrano staccarsi e galleggiare in aria.
L’effetto metafisico impone di guardare cosa guarda la morente, di trovarsi nel suo stesso sguardo e subire la stessa allucinazione: lo spazio intorno che si dilata e si sgretola, e che poi di li a poco scomparirà del tutto.
Sul cuscino un rivolo di pittura cola giù. Di nuovo questa dissolvenza che definisce chiaramente la sparizione del corpo dalla Terra e soprattutto dal cuore di Munch.
La bambina malata
“La Bambina Malata” è un ritratto dilaniante di sua sorella Sophie, la testa riversa su un cuscino e col bel fluido di capelli rossi che la incorniciano. Abbandonata al male che la sta consumando, assume delle tonalità ruggine e verde che quasi la irraggiano e la fanno sembrare meno malata e più leggera. Il quadro è stato riprodotto in diversi colori. Questo forse è quello con più pathos.
La bambina malata – litografia
Si tratta di un ricordo del ricordo: Munch infatti riproduce il dipinto del 1884-85 ma utilizzando uno strumento chiamato puntasecca. Con questo crea delle linee verticali fitte fitte che lui stesso definisce “le sue ciglia”.
Rispetto a “Lotta contro la Morte”, il punto di vista cambia, è Munch stesso a diventare lo spettatore unico.
Sul letto di Morte. La febbre.
Sophie continua a tediare l’animo di Munch.
La scena stavolta è molto molto più in dissolvenza, e sulle pareti la carta da parati ha lasciato il posto a un’aleggiare di strani volti.
Questi paiono assistere, insieme ai familiari, al dramma che si sta consumando. Anche se, essendo il punto di vista di Sophie, di nuovo, l’effetto metafisico potrebbe aver preso il sopravvento e indicare la presenza di spiriti maligni e spazi irreali frutto del trapasso.
Chiaro di Luna. Morte a Saint-Cloud
“Chiaro di Luna” è la prima di una lunga serie di opere eseguite con la tecnica dell’intaglio.
La luce, fuori dalla finestra, abbaglia: sono le acque della Senna che rilucono spensierate. Mentre all’interno, un’enorme croce prodotta dalle assi della finestra si allunga sul pavimento. L’uomo che si staglia in penombra è Munch.
Isolato e ricurvo, si rannicchia, come se portasse un peso enorme. Il padre, infatti, se n’è andato, e lui trovandosi a Saint Cloud non riuscirà a tornare in Norvegia per il suo funerale.
Partecipa al dramma della morte, ma stavolta senza raffigurarla.
Forse lui stesso è il cadavere.
DAI “BOHEMIEN” A PAUL GAUGUIN
NELLA MOSTRA DI MUNCH A ROMA
Non dipingo ciò che vedo, ma ciò che ho visto”
Ecco, in questa frase ritroviamo brevemente l’essenza delle opere di Munch.
Quello che ha visto è la morte. E non la rappresentò solo in scene di lutto, ma in tutta la sua produzione artistica.
Furono gli scrittori, studiosi e scienziati che incontrò durante i viaggi in Francia, a guidarlo attraverso l’indagine del suo inconscio.
La figura di Stanislaw Przybyszewski
Si legò principalmente ad un gruppo anarchico norvegese, i Bohémien di Kristiania, che lo indottrinarono sulla sessualità libera e gli permisero di conoscere lo scrittore e critico polacco Stanislaw Przybyszewski, un uomo dalle molteplici personalità. Un fanatico e violento ma anche colui che credette per primo nel talento di Munch. Fu costui a pubblicarlo e a prenderlo sotto la propria ala protettrice.
Di Stanislaw infatti ritroviamo qua e là molteplici ritratti.
Il colore di Munch
Ad arricchire il bagaglio di elementi controversi di Munch è il colore di Paul Gauguin, un colore che stravolse tutti i piani dell’artista.
Una volta scoperto, lo studiò, lo provò, mescolò le terre e i pigmenti. Per lui il colore diventò una ricerca continua e quindi una nota determinante per la riuscita dei suoi stati emotivi.
Perciò quando si trattò di scegliere con quale colore rendere i contorni delle figure, ma anche il dolore, predilisse il verde al nero. Lo stesso per le ombre: non scelse mai il nero, ma il blu. L’angoscia non è nera ma rossa. Riuscì a mettere insieme i colori caldi con i colori freddi. Ed è così che gli stati d’animo, fortemente caratterizzanti nel lavoro di Munch, presero volume e oggi balzano all’occhio dell’osservatore come pugni violenti.
MOSTRA DI MUNCH A ROMA: L’AMORE
Se la letteratura scandinava aveva destato nell’artista l’interesse per il sentimento tragico, a un certo punto l’amore si affacciò nella vita di Munch, e la vita si confuse con la morte.
Il critico Carlo Argan affermò:
… le rappresentazioni di Munch devono autodistruggersi, in un certo senso. E il colore deve bruciare della sua stessa violenza.
I lavori di Munch non devono significare ma esprimere”.
Se questo concetto era valido per il tema della morte, a maggior ragione lo fu per il tema dell’amore.
La ricerca di quella che Munch definì “la grandiosa sessualità” iniziò in seno al gruppo dei bohémien e divenne il centro altro delle sue lotte interiori.
Munch tra “grandiosa sessualità” e tenerezza
Nel 1890 l’artista scrisse il Manifesto a Saint Cloud affinché l’espressione di quanto appreso dai Bohémien di Kristiania avesse una dimensione vera. Ma il suo era un testo controverso. Ancora una volta, infatti, nonostante si sentisse vicino a un ideale, lo valicò senza guardarsi indietro.
La misoginia, così come le immagini forti che trasformavano un incontro d’amore in una battaglia dei sessi, non rappresentavano ciò che Munch perseguì realmente.
Rispetto al gruppo anarchico dei bohémien egli mostrava empatia verso le persone che raffigurava, e anche se irretite e rovinate dall’amore, lui si lasciò andare alla tenerezza. Quasi proteggesse quel lato di sé indifeso e fragile.
“Amore” secondo Munch
Munch iniziò il filone sull’amore con una serie intitolata proprio “Amore”, e che molti anni più tardi diverrà “Il Fregio della Vita”.
All’origine erano solo sei opere, a cui se ne aggiunsero altre otto.
Un giorno, l’artista si accorse che esponendole tutte vicine, queste sei opere, una affianco all’altra, acquisivano un valore che, singolarmente, non possedevano.
Munch voleva raccontare il desiderio erotico, il risveglio sessuale e poi la desolazione, ma finì con l’avvicinarsi al concetto di ciclo essenziale della vita umana inteso come Amore, Seduzione, Morte e Rinascita.
Le sei opere di “Il Fregio della Vita”
- La Voce
- Il Bacio
- Vampiro
- Madonna
- Malinconia
- l’Urlo
Munch è stato tra i primi artisti in Europa a curare le proprie mostre.






La voce
La sospensione metafisica, la malinconia, l’isolamento e il mistero sono tutte tracce di quella corrente bohémien che qui Munch interpreta.
“La voce” è una donna tesa, raggelata, che guarda dritta negli occhi lo spettatore. E’ un unico blocco di sentimenti, ferma tra diversi tronchi di alberi. Alberi che sembrano sbarre.
Lo spazio appare impenetrabile, è un recinto dentro cui non c’è un grido reale, una voce reale, una bocca che si allarga per far uscire la tempesta emotiva. Ma c’è un pathos urlante, questo sì.
Il Bacio
Munch esplora il bacio in diversi modi, alcuni peraltro li numera. Nella mostra di Munch a Roma sono esposti:
- Il Bacio del 1897
- Il Bacio della Morte
- Il Bacio IV
“Il Bacio” del 1897 è quello che ha fatto storia.
Qui emerge velatamente quell’approccio quasi di protezione nei confronti dell’amore, che entra subito in contrasto con gli ideali bohémien.
Nel dipinto è evidente che i corpi si fondono, scompaiono perciò i caratteri somatici e i le anime diventano un tutt’uno. Si annullano anche le identità delle persone raffigurate.
Se lo ammirassimo senza conoscerne l’autore potremmo anche azzardare si tratti di un tributo all’amore che, talmente è forte, unisce per l’eternità l’uomo e la donna.
Ma essendo un quadro di Munch, qualche dubbio lo solleva e fa nascere misteri e domande.
Soprattutto perché gli amanti, annullandosi reciprocamente, non esistono più, e quindi secondo il pensiero nordico, muoiono nel corpo.
Quindi, ci troviamo di nuovo di fronte alla morte, o di fronte a due innamorati?
L’uomo e la donna coinvolti si fondono e si proteggono, e quindi sono felici, oppure si stanno ingabbiando, ferendo, togliendosi reciprocamente l’aria?
I concetti su cui si fonda un quadro “innocente” come il Bacio possono essere molteplici e per questo l’opera continua a lasciare sgomenti e senza risposte esaustive.
Vampiro
“Vampiro“, del 1893, è una prima bozza di quello che l’artista aveva intitolato “Amore e Dolore”, un dipinto che è diventato uno dei suoi quadri più famosi, e anche misteriosi.
Perché optare per un titolo così lontano come “Vampiro”?
Fu Stanislaw a imporglielo e quindi a deviarne anche il significato.
“Amore e Dolore”, come lo stesso Munch aveva precisato “è solo una donna che bacia un uomo sul collo”. Ma la scena, con questo nuovo titolo, da che voleva essere tenera, assunse un connotato di violenza.
La donna, da amorevole che fosse, incarna improvvisamente gli attributi della figura dominante, mentre l’uomo si fa sempre più fragile, sottomesso e soggiogato dal fascino di quella.
Tuttavia, essendo nato con un presupposto di tenerezza, cosa ci leggete voi?
Nonostante tutto, appare evidente la forma di protezione e accoglienza della donna. Mentre l’uomo abbraccia un sentimento materno, sessuale, amico.
In questo quadro, meglio che in altri, è spiegato il contrasto di fondo tra Munch e i Bohémien, quell’intenzione ultima che lo distinse sempre dal gruppo di anarchici.
Madonna
“Donna che fa l’amore” era il titolo originario e raffigura una donna, appunto, che accoglie in seno tre elementi diversi: cristianità, sessualità e biologia.
Avvolta dentro un nimbo vorticoso, la donna ha l’aureola ed è solo questa a conferirle una parvenza di sacro.
“Madonna” lo diventa perché, chi la osserva, ha davanti a sé una visione di assoluta bellezza. Ma è una Madonna in estasi, passionale, carnale, nulla a che vedere con le Madonne ieratiche e bibliche.
Di questa opera ne fa cinque versioni. E molti studiosi attribuiscono le fattezze a Dagny Juel, allora musa ispiratrice dei letterati e artisti scandinavi, nonché moglie di Stanislaw.
Questa Madonna, insieme a L’Urlo, sono stati i famosi due quadri dell’artista ad essere stati rubati per ben due volte, e fortunatamente anche ad essere stati ritrovati.
Malinconia
Con “Malinconia” vi è la svolta di Munch.
Il protagonista della storia non è l’uomo affacciato sulla balaustra, né lo sono la coppia sul molo, né il paesaggio; il vero catalizzatore è la ferita che sgorga sangue. Quindi i sentimenti di solitudine, abbandono, di isolamento, male psicologico, e infine gelosia.
Il triangolo amoroso raffigurato, riguarda tre membri del Kristiania Bohème: Jappe Nilssen, Christian Krohg e Oda Krohg. La donna si allontana con il marito, mentre l’amante resta a fissare malinconico l’orizzonte.
Ma se approfondiamo, è chiaro si tratti di Munch. Non è un autoritratto fisico, più una confessione intima con se stesso. Ci troviamo di fronte al suo male di vivere, alla condizione di non-vita di cui si sente prigioniero, estraneo, sofferente.
L’Urlo
“L’urlo” iniziò il suo viaggio su un quadernetto nel 1891. Munch fece degli schizzi del sentimento aspro che voleva vomitare e, non pago, lo rielaborò in un testo.
Era il 1892 e si trovava a Nizza.
Scrisse:
Stavo camminando per strada con due amici; il sole stava tramontando e, all’improvviso, il cielo divenne rosso sangue. Mi fermai e mi appoggiai alla staccionata, preso da un’indicibile spossatezza.
C’erano sangue e lingue di fuoco sopra al blu e al nero del fiordo, e della città. I miei amici continuarono nella loro passeggiata, e io rimasi lì, tremando per l’ansia, e percepii un urlo infinito attraversare la natura”
La vista in cui inserisce questo grido violento è del porto di Oslo. L’uomo si trova sulla collina Ekeberg.
Si tratta di un umanoide curvo e molle. Lui diventa improvvisamente lo strumento per mezzo del quale la Natura rivolge al mondo il suo dolore, diventandone cassa di risonanza.
La prima versione del dipinto è del 1893 e la seconda nel 1910. Poi Munch realizzò anche le bozze a matita e pastello. E nel 1895 creò la litografia presente nella mostra di Munch a Roma.
In questa litografia de L’Urlo il colore sparisce e sono le linee nette a dare forza all’intenzione dell’umanoide.
Raramente, una qualsiasi delle produzioni de il “Grido”, viene esposta fuori dalla sede in cui è custodita: sono tutte opere fragili e sensibili alla luce.
Perciò è un evento poterne ospitare una in Italia.
TULLA LARSEN ALLA MOSTRA DI MUNCH A ROMA
Inutile dire che Mathilda, detta Tulla, Larsen occupò un posto di rilievo nella vita di Edvard Munch.
Quando si incontrano a Oslo era il 1898. La relazione, che nacque con tutti i migliori auspici, presto degenerò.
Munch si sottraeva alle continue avances della donna, la quale secondo il pittore, lo distraeva dal lavoro. Quindi a un certo punto fu tassativo con lei: potevano essere amici ma nulla di intimo. Voleva che fossero come fratello e sorella.
Tulla, che invece era follemente presa da questo uomo, non accettò l’ultimatum, si oppose, lo tormentò, lo “violentò” psicologicamente.
La loro relazione volse al termine nel 1902 ma i toni si inasprirono. Nel loro ultimo incontro, infatti, la drammaticità dei sentimenti contrastanti si tinse di noir. Litigarono ferocemente e lei impugnò un’arma, sparò, presa dalla follia, e lo ferì al dito. L’atto, già di per sé violento, danneggiò il pittore che dovendo accettare l’amputazione del dito, fu costretto a rivedere il suo modo di lavorare. Da quel momento in poi crebbe in lui una forma di depressione che lo condusse in una brutta spirale di alcoolismo.
Il colpo di grazia arrivò quando Tulla decise di sposare un altro artista. Munch a quel punto decise di farsi curare e si ricoverò in una clinica.
Tulla Larsen
Il quadro che sancì la loro separazione lo dipinse nel 1905 e lo intitolò: “Tulla Larsen“.
La cosa che colpisce è la struttura. Sono due ritratti separati tra loro ma che formano un insieme: in una metà è dipinta Tulla, nell’altra metà vi è Munch in primo piano, e dietro, in lontananza, il marito di lei, roso dalla gelosia.
Il sentimento arde forte ma il concetto di divorzio, di frattura, di taglio netto, molto di più. C’è una separazione dentro cui Munch ha sicuramente scavato, e il dolore è proprio in quello spazio lasciato aperto tra i due dipinti.
La Morte di Marat
In un dipinto intitolato “La Morte di Marat” Munch, dopo nove anni che covava il ricordo dello sparo, riuscì finalmente a gestire la sofferenza, incanalarla attraverso la scena, i colori, lo sguardo distaccato.
Si ripete il modus operandi “bohémien” e qui, per la prima volta, la donna è davvero predominante -impugna perfino una pistola- e l’uomo è assolutamente la vittima sacrificale.
Per raccontarne la trama Munch si affida alle figure storiche del rivoluzionario francese Jean Paul Marat e a Charlotte Corday, colei cioè che lo uccise.
Disse di questo quadro: “il bambino è nato ed è già stato battezzato”.
Trattandolo esattamente come un parto, anzi, il parto più complesso della sua esistenza. Nove anni.
Assassinio
Tra gli altri quadri, che pure accentuano il triste epilogo con la bella Tulla, c’è “Assassinio”, il cui finale non si sofferma sul dito ferito, anche se lo evidenzia tingendo di rosso la mano, ma sulla sua dipartita.
Tulla lo avrà pure ferito all’arto ma lo ha ucciso nell’anima.
Le pareti sembrano incendiarsi di fronte a loro. Lei è impietrita, ai piedi del letto; lui è rigido, disteso sul letto.
Munch trasforma il loro ultimo incontro in un omicidio-veglia.
Di nuovo torna la morte a prendersi la scena. Ma il punto di vista -straordinariamente- lo affida a un se stesso estraneo, quasi la voce narrante della vicenda conclusiva di quell’amore malato.
L’AVVERSIONE PER LE DONNE
Il concetto di misoginia, tanto caro ai bohémien, si ripete più e più volte nei ritratti che Munch fa delle donne e degli uomini.
Arpia
In “Arpia“, per esempio, il contenuto è violento.
La donna è pericolosa, è una creatura mitologica, metà donna e metà uccello. La stessa che Virgilio aveva posto all’ingresso degli Inferi quale rapitrice di anime. L’apertura alare della creatura sovrasta il cadavere di un uomo, con fare aggressivo e autoritario, e gli artigli sono ben sguainati, come se volesse infierire post-mortem sulla pelle del defunto.
Salomè
Lo stesso sembrerebbe accadere in “Salomè“, dove la donna, stavolta, è la violinista di origini inglesi, Eva Mudocci.
Munch la conobbe a Parigi nel 1903. In Salomé si ritrae con lei, in una specie di caricatura della nota scena biblica “Il banchetto di Erode”.
La testa di Munch rievocherebbe quella di Giovanni Battista. Ma invece che su un piatto d’argento, questa poggia, quasi accudita, nell’incavo del collo di Eva-Salomè.
Questa interpretazione però fa avanzare una seconda lettura, che di nuovo farebbe allontanare Munch dalle scene di violenza che vogliono la donna carnefice e l’uomo vittima.
La testa di Munch, appoggiata così, tra i capelli della donna, figura quasi come un violino, il che suggerirebbe perfino una tenerezza di cui abbiamo già avuto dimostrazione in altre opere.


Un filo conduttore: i capelli delle donne
Ne “La Spilla”, dove ritroviamo Eva Mudocci, il concetto è chiaro: la spilla è un gioiello importante che l’artista mette al centro. Qui non ci sono fraintendimenti. C’è erotismo e bellezza. E ci sono i folti capelli della donna che la incorniciano come una Madonna.
I capelli orditi da Munch spesso sono un dettaglio rilevante nelle sue opere.
Per esempio in “Testa d’uomo tra capelli di donna” compaiono perfino nel titolo. In questa scena subentra di nuovo la dominanza della donna rispetto all’uomo, o così sembrerebbe.
I due sono Stanislaw Przybyszewska e Dagny Juel. Un ritratto di coppia insolito e che qualche dubbio lo lascia: i capelli sono le trame di una trappola amorosa, in cui l’uomo precipita, o una sorta di protezione?
Il solito dilemma di sempre: siamo davanti a un amore tenero o a un amore malato?
Anche in “Attrazione II” i capelli sono la rete di comunicazione tra l’uomo e la donna ritratti.
Si può leggere, nel loro ondeggiare, l’espediente poetico, ma è vero pure che così come in “La Spilla“, il potere erotico è definito proprio dalla loro modulazione.
I due sembrano sonnambuli, attratti l’uno verso l’altro da una forza magnetica superiore. E i capelli occupano quello spazio tra loro con una certa forza. Permettono il dialogo.



LE OPERE DI MUNCH SENZA LO SPETTRO DELLA MORTE
Visione
Un quadro che colpisce nella mostra di Munch a Roma è “Visione”. Nella scena, una figura spunta fuori da un liquido metafisico. Può essere acqua ma anche l’artefatto dell’inconscio.
E visti gli occhi chiusi tutto porterebbe a supporre si tratti di un sogno. Tesi avvalorata dal cigno candido che galleggia armonioso e bellissimo.
Il tema degli occhi chiusi, perno del Simbolismo Europeo di fine XIX secolo, è un conduttore che permetterebbe alla mente di essere traghettata da un mondo fisico a uno spazio interiore.
L’opera esplora l’idea di un inconscio che prende il posto della vista.
Tra l’altro “Visione” è l’opera da cui Munch non si separò mai nelle varie mostre, la espose sempre, e per questo la si ritiene importantissima per l’artista.
Il Falciatore
“Il Falciatore” è un dipinto emblematico della ritrovata libertà. Gli spazi sono calibrati in un modo totalmente nuovo, e il rapporto dell’uomo con la Natura non è isolato. Il falciatore entra in contatto con la terra intorno, dialoga con essa.
Egli taglia l’erba con un ritmo che spodesta tutti i silenzi pregressi, l’infermità della pelle, l’opacità dei colori. Vi è una rinascita di sé attraverso tutto ciò che vibra. E per arrivare a toccare con mano la bellezza della Natura Munch piega la linea dell’orizzonte, fino ad inarcarla; e varia la direzione e la lunghezza delle pennellate, ma stavolta più come un atto gioioso che come un intento malevolo di ingabbiare la scena.
Non assistiamo ad un “fuoco che arde e brucia il quadro”, così come citato da Argan, ma ad un nuovo ritmo della vita che prende forma.
Un passo bellissimo è legato a questo quadro:
"La terra amava l'aria, l'aria la consumava. E la terra diventava aria e l'aria diventava terra. Gli Alberi allungavano i loro rami verso il cielo e consumavano l'aria. Gli Alberi si staccavano dalla terra e diventavano esseri umani. Tutto è vivo e in movimento. Anche al centro della Terra ci sono scintille"

Le Ragazze sul Ponte
Infine “Le Ragazze sul Ponte”, che è diventata una delle sue opere più rilevanti e rappresentative di un periodo di rilassatezza.
Di nuovo abbiamo uno steccato e a questo sono appoggiate tre ragazze che guardano l’orizzonte. Non vi sono demoni o lingue di fuoco che scuotono il cielo, anzi, è un attimo senza tempo, un tema che l’artista ripeterà più volte successivamente.
Le acque sotto i piedi delle fanciulle sono calme, così il paesaggio.
Dipinge quella che Munch definisce: “l’unica estate felice che ho avuto nella mia piccola casa”.
Ombre e luci della Mostra di Munch a Roma
Le ombre sono state il tormento dell’artista ma anche una continua scoperta: è attraverso le ombre che ha potuto indagarsi, scendere negli abissi dell’esistenza, la sua e anche quella di chiunque avrebbe avuto modo di osservare i suoi quadri.
Disse più volte:
Ho sempre pensato e sentito che la mia arte potrebbe aiutare gli altri a fare luce nella loro ricerca di verità”
Scoprire le sue opere una ad una, in questa mostra a lui dedicata, fa riflettere molto.
Con lo spirito giusto è possibile valicare quei meandri in cui c’è assenza di luce, stare lì e fare ciò che era solito fare Munch, cioè esercitarsi affinché “l’invisibile diventi visibile“.
Il dolore si può nascondere tra le pieghe oscure del nostro essere, ma resta saldo, e continua a scavare nell’anima fino a corroderla.
L’unica salvezza è permettere alla luce di entrare.
Munch è morto a Oslo, all’età di ottant’anni, era il 23 Gennaio del 1944.
E’ il pittore che più di tutti anticipa e quasi prevede la società odierna, fatta di spazi vuoti in cui precipitare ogni giorno e di una solitudine individuale che separa menti e cuori.
Visitate la mostra di Munch a Roma, è un viaggio imperdibile!
Sono prima di tutto una viaggiatrice, annuso la vita e ne trattengo le radici. Quindi scrivo per piacere ma anche per lavoro. Scrivo perché senza non saprei starci. E poi fotografo perché la fotocamera è il mio psicologo personale. Cammino sempre con un animale di fianco, un gatto un cane un cinghiale un ippopotamo. Insomma converso. E poi scrivo di nuovo.
1 commento
Hai fatto un lavoro straordinario attraverso il quale ho conosciuto Munch, della cui vita tragica e alla quale ha dedicato gran parte granate delle sue opere, nulla sapevo. Di Munch conoscevo solo l’Urlo.
Sei una ragazza dal multiforme ingegno. Complimenti. Io purtroppo, al di fuori dei nostri grandi artisti del rinascimento e gli impressionisti francesi e qualche altro, ho una conoscenza superficiale. Ancora complimenti, sei come sempre bravissima. Un abbraccio.