
Mi è capitato un giorno di incontrare un uomo. Non era un uomo bello, anzi, direi piuttosto emaciato. Non parlava molto, però nel suo modo di contemplare il paesaggio ci ritrovai una bellezza profonda.
Gli dissi che scrivevo. Poi aggiunsi che avrei potuto scrivere una storia su di lui anche senza sapere chi fosse. Quello, che aveva l’aplomb tipico dei nordici, mi squadrò senza scomporsi. Ed io mi incuriosii ancora di più.
Stette un po’ in silenzio, non sembrava turbato dal fatto che gli avessi rivolto la parola, però, a un certo punto, sollevò un sopracciglio. Era largo il sopracciglio, e poteva essere o un grande punto interrogativo o un evidente contrarietà.
Disse senza preamboli: “E cosa scriverebbe?”
Gli risposi “Potrei inventare una storia sicuramente interessante, ma se potessi intervistarla, sono certa risulterebbe più vera”
“Non ho molto da dire”.
Sospirò. E nello strofinarsi il mento appuntito mi parve che cercasse un senso a quella nostra conversazione insolita.
Le sopracciglia erano diventate due archi speculari. Gli occhi, due tondini intelligenti. Mi fissò per qualche secondo. Così io provai a dargli uno spunto da cui partire.
“Potrebbe dirmi a cosa pensava, poco fa, guardando questo paesaggio. Era così… lontano, ovunque fosse!”.
Lui si guardò attorno come se dovesse accertarsi di dove si trovasse.
La sua statura quando si alzò dalla panchina non cambiò molto, era davvero basso.
C’era un’inquietudine negli abiti che indossava, in come si muoveva, nel viso giallo pallido.
Tossicchiò e si schiarì la voce prima di iniziare a dire qualcosa.
“Pensavo a qualche mese fa. Ero qui, proprio su questo sentiero che porta a… a… non ricordo il nome, insomma in cima alla collina. Ero con due amici…. anche se, riflettendoci, ero solo” sospirò e le pupille gli si spalancarono tetre.
Poi proseguì.
“Si è soli quando si è pazzi. Lo sapeva?” mi chiese come se fosse una confidenza, ma anche come se fosse un comizio. Spifferò appena la parola “matti” e invece gridò quando disse “lo sapeva?”.
“Si è soli e tutto ha un valore diverso. Prenda questo paesaggio. Lei cosa vede?”.
“Una bella vista tutto sommato” risposi “con dei colori pazzeschi, l’orizzonte caldo, e laggiù il mare, quel fiordo che lo penetra, le barche che mi danno un senso di pace… vedo questo… e lei?”.
“Io vedo la disumanità dell’uomo che ha trasformato ogni ruga di terra per sentirsene il padrone” si toccò la testa calva, pareva che qualche suono acuto lo avesse trapassato da parte a parte, infastidendolo. Ma non c’era che il silenzio intorno.
Solo di tanto in tanto si aprivano siparietti di voci sfumate: le persone ci passavano davanti e dentro i loro micro mondi parlavano linguaggi fitti di vita, ipocrisia, romanticismo, mediocrità.
Lo incalzai “Mi diceva che era qui qualche mese fa”.
“Sì, ero proprio laggiù quando successe” indicò un punto imprecisato del viale, più o meno a metà.
“E accadde qualcosa di particolare?” ero arsa dalla curiosità, come spesso mi capita quando le vite degli altri mi entrano nella testa.
“Accadde… Accadde…” si appoggiò alla staccionata e si impietrì “… c’era un tramonto di quelli che non si dimenticano: nubi dense come lingue infiammate e tuoni di spade. Il fiordo invece era diventato una terra nero-blu, impervia, sovrastata dalla potenza del cielo, e il mare una massa oleosa. Mi salì dentro una malinconia brutale. Un rigurgito velenoso. Non saprei descriverlo… le è mai capitata una cosa del genere?”
Gli risposi che a volte, come tutti, avevo dei malesseri ma che no, non mi era mai successo di sentirmi salire un rigurgito velenoso.
“Qua in cima c’è un manicomio…” indicò sbadato “e da lì arrivano certe grida che forano i timpani, grida angosciate di gente che non conosco… ma mi sembrano così vicini a me”.
Si portò di nuovo la mano alla testa e se la sorresse come se questa stesse per cadergli.
“Natura e uomini non vanno d’accordo, signorina, non possono andare d’accordo. Una vuole gli spazi per crescere, gli altri vogliono gli spazi per costruire. Capisce da sé che si annullano a vicenda” disse staccandosi dalla staccionata e andandosi a risedere.
Gli andai dietro, sempre più rapita dalla sonorità di quelle parole, dal peso di quello sguardo indefinito. Lui proseguì, come se ormai non servisse più che io gli domandassi altro.
“Dio ci ha dato un mondo perfetto e struggente e poi ce lo ha lasciato distruggere. E ha lasciato anche quei poveri Cristi lassù tra le mura vuote, a gridare, a rimbombare dentro loro stessi, a fare echi sovrumani, inascoltabili, che non ti danno pace. Tu passi qui e non ti danno pace …. non lo sopporto, ecco, non sopporto il dolore degli altri e nemmeno il mio” la nervatura del collo gli si fece violacea, pulsava. Così quella delle mani.
“Lei ce la fa a sentire e vedere tutto questo dolore e vivere come se nulla fosse? Io no, io ho una paura mortale di impazzire, non trovo più rifugi dove nascondermi, un Dio da pregare, amici in cui cercare conforto… niente… niente intorno che mi salvi” la testa gli scivolò giù tra le mani, un teschio senza più carne.
Dentro quella costernazione disse “Ho urlato quel giorno mentre passavo di qui, ho urlato tutta la paura e la frustrazione che avevo in corpo, ho urlato contro il fiordo, contro il tramonto di sangue. Ho urlato per sentirmi come i poveri cristi. Ho urlato… e, sa cosa si sente quando uno urla? La morte. La solitudine. Quei due amici con cui ero a passeggio non mi hanno sentito. Hanno pensato che fossero i pazzi”.
La gola mi si indurì. Forse perché avevo indossato anche io l’invisibilità. Sapevo, sentivo la sua pena infinita.
“… capisce?” sorrise stringendo i denti “Non mi hanno sentito. Perché non siamo più abituati ad ascoltare davvero”. In quella rassegnazione che compatii, aggiunse “… nessuno mi sentì, né i passanti, né Dio, né Oslo laggiù all’orizzonte. Nessuno, tranne uno. Un tizio strampalato. Era seduto proprio dove siamo noi, era un pittore. Così mi disse. E quello… bè, non solo mi sentì ma … non mi dipinse mentre urlavo? Mi dipinse…!”.
A quel punto, all’uomo si smorzò la voce. Io rimasi soggiogata dalla piega che aveva preso la storia. Attesi trepidante che continuasse e lui, dopo una breve pausa, riprese il discorso.
“Qualche giorno fa passavo per una via di Oslo, ho visto la mia faccia dentro una galleria d’arte. Lei che avrebbe fatto? Io sono entrato, sono andato davanti al mio ritratto e sono rimasto lì un’ora a fissare me stesso con la bocca spalancata. Ero deformato, non c’era più sesso in me, potevo essere una donna calva o uno scheletro con un po’ di pelle appiccicata” si asciugò il pianto che gli cadeva giù silenzioso e proseguì “la mia pelata, che già non è un belvedere, somigliava a un uovo, il mio corpo andava per conto suo, sembrava che il pittore avesse visto sopraggiungere un forte vento e che io mi ci fossi ritrovato in mezzo. Ma il corpo pur ondulando sotto le raffiche non mi spezzava e non mi spazzava via. Strano, io secondo il pittore ero più forte del vento”.
Al ricordo di una tale rivelazione si morse il labbro inferiore e raccolse un sassolino da terra. Poi lo scagliò oltre lo steccato.
“Guardando il quadro mi sono sentito in pace, mi crede signorina? Quel tale, un certo Munch, mi aveva capito: il mio dolore muto era stato fermato su una tela, lo vedevo, ce l’avevo davanti alla faccia. E anche se mi vidi in tutta la mia mostruosità, mi riconobbi per la prima volta e respirai… respirai fiducioso. Già, fiducioso. Perché il pittore aveva immortalato anche una forza che non sentivo di avere” inarcò un piccolissimo sorriso e disse “… forte di questo, scrissi qualcosa lì, sul quadro, proprio in cima dove il tramonto di fiamme e di spade si allargava. Scrissi una cosa, scrissi: poteva essere stato dipinto soltanto da un pazzo”.
Fissai quell’uomo, il sorriso di chi ha una marachella da farsi perdonare, e rimasi attonita per qualche secondo, pensando si stesse burlando di me. Ma era sincero.
“Davvero lo ha fatto? E il pittore non se n’è accorto?” gli chiesi incredula, eccitata, con un filo di voce perché nessuno ci potesse sentire.
“Certo che l’ho fatto. E no, quello era schivo, perplesso, preoccupato. Sentii pessime critiche sui quadri e in special modo sul mio. Ah! Se ne stava ingrugnito in un angolo… Mi dispiacque. Quel Munch mi aveva dato una chance. E sa cosa? Penso di stare migliorando di salute. Penso che non impazzirò mai, che non finirò come pensavo in cima alla collina di Ekberg… ecco, si chiama così la collina. E grazie a lei si è aperto un’ulteriore spiraglio. Sì, lei, come quel pittore, mi ha visto. Ha visto proprio me”.
Cosa significa secondo lei, signorina, che non sono più invisibile?” non aspettò che io rispondessi “…forse, se gente che scrive e che dipinge mi vede, significa che sono davvero più forte del vento!”.
Gli chiesi se potevo pubblicare la sua storia.
Mi rispose, poggiandomi una mano sul braccio “Tra pazzi non possiamo dirci di no”.