Papà ci ha lasciato molto di sé da scoprire e che ritroviamo nelle parole di chi correva con lui in bicicletta. Parole che in questi mesi ci hanno aiutate e ci hanno rese fiere di lui.
Ognuno di noi lo conosceva a modo suo. Qui ci sono le fotografie che lo definiscono meglio. Lui era i chilometri percorsi, era la sua maglia, era il sudore, la fierezza, era la sua schiena ricurva sul manubrio. Papà era un ciclista puro e purosangue. Che se avesse intrapreso prima questo sport avrebbe potuto ambire al professionismo. Invece ha iniziato a pedalare -seriamente- solo all’età di trentatre anni e quindi è stato un agonista. Ma è rimasto incollato a quel sellino per quarantadue anni consecutivi pedalando come un matto.
Io e mia sorella le ricordiamo tutte le sue corse, le sue vittorie, eravamo piccole, poi adolescenti ma lo seguivamo ovunque andasse. E quando tagliava i traguardi saltavamo in aria impazzite. Arrivava con il viso contrito, slavato, pareva vecchissimo, tutto sudato, le rughe che lo scavavano, a volte gridava e si buttava in terra per i crampi, altre volte lo vedevi sfilare via, non si fermava, continuava a pedalare.
La verità è che non erano i traguardi, le coppe, le vittorie a fargli amare la bicicletta ma la libertà di salire in sella e sfidare il vento. Su strada ha fatto chilometri e chilometri, si è mangiato gli asfalti di mezza Italia e poi non sazio è andato anche in Austria, a competere con tutti i ciclisti del mondo. Sulla strada volava. A volte, quando gli andavamo dietro con le macchine dell’organizzazione, io e mia sorella ci spaventavamo per la velocità con cui affrontava le curve e soprattutto le discese. Non temeva il pericolo, le cadute, prendeva la scia di quelli davanti a lui, e poi si alzava sui pedali. Quello era il momento che faceva volare anche noi perché sapevamo che stava andando a prendersi il primo posto.
Abbiamo anche riso tanto in quelle domeniche “ciclistiche”, perché, diciamocelo: i corridori sono abbastanza matti, sono fumini, hanno qualcosa che gli brucia sotto al sedere. Abbiamo assistito a litigate furibonde, insulti, sputate per terra, a cadute terribili, a sgomitate e a volate al cardiopalma. E poi però il clima cambiava improvvisamente quando dovevano cambiarsi. Almeno per noi, che assistevamo a quel teatrino, ci pareva di vederli da un altro punto di vista, anche più umani.
Pioggia, neve, sole, i ciclisti si spogliano in mezzo alla strada, cioè tra la strada e gli sportelli aperti delle macchine.
Papà apriva il portabagagli addirittura! E dentro c’era di tutto, ma era un disordinato cronico quindi non trovava mai niente. Iniziava ad asciugarsi con un telo da mare, si sfilava gli scarpini, si toglieva la tutina ma alla fine arrivava sempre il momento clou quando improvvisamente le scarpe non erano dove le aveva messe, il portafogli era sparito e il numero da riconsegnare agli organizzatori volatilizzato.
Per assistere a tutto questo ci alzavamo prestissimo la mattina. Ma ne è sempre valsa la pena.
Lui era felice, sembrava come abitato da una forza superiore. La bicicletta è stata la sua valvola di sfogo, non semplicemente un hobby. Più un lavoro, una missione e a un certo punto anche un calvario.
Abbiamo visto tante volte papà volare al traguardo con quella maglia di Ferioli, che per lui era diventata più di una famiglia. Anzi, noi tutti insieme siamo stati come una grande famiglia. La indossava con orgoglio, ci teneva che Idolo Ferioli facesse bella figura, e che potesse contare su un uomo come lui, un generoso, uno che sapeva stare al suo posto quando doveva ma che sapeva scattare quando si presentava l’opportunità. La maglia Ferioli era anche e soprattutto un simbolo di Formello, e papà su tutti i podi, c’è salito non solo come Dino Gizzi, ma come il formellese con la maglia di Ferioli.
Ma poi lo abbiamo visto anche allontanarsi dal gruppo, lo abbiamo visto soffrire, lo abbiamo visto deluso. E abbiamo capito che qualcosa si era rotto profondamente tra lui e alcuni suoi compagni di squadra. Un sentimento che fu insanabile e che gli fece prendere la decisione di lasciare la Ferioli Combustibili.
Mio padre era un osso duro, quando si metteva in testa una cosa non c’era nessuno che poteva fargli cambiare idea. Era un permaloso, un cocciuto, un intrattabile. Ma in quell’occasione era nel giusto.
E se c’è una cosa che mi ha insegnato proprio in quel frangente di vita è che l’onestà viene prima di tutto. Anche prima di una medaglia. Sono fiera di lui, è stato un ciclista che si è meritato tutte le coppe che ha vinto. È arrivato ad ogni traguardo con le sue gambe, la sua tenacia, i lunghi allenamenti quotidiani. Non si è mai aiutato con sostanze dopanti e non ha mai fatto sgambetti per vincere. E ci ha tenuto a lasciare questa sincerità sportiva ai giovani ciclisti che hanno corso con lui, speriamo ne facciano buon uso.
Papà era uno sportivo vero e lo abbiamo ritrovato nelle parole di molti.
Oltre a quello che abbiamo vissuto in prima persona, anche voi in questi mesi ci avete raccontato esattamente le stesse cose.
Con tanti, papà ha dispensato consigli, anche non richiesti magari, perché a lui piaceva esserci, trasmettere ciò che aveva imparato correndo; con altri è stato un padre, un mentore, un “istigatore” della corsa. Molti con lui hanno iniziato ad andare in bicicletta.
Ed è bello pensare che un po’ del suo spirito intramontabile, pedali ancora attraverso i piedi di alcuni ciclisti che gli hanno voluto bene.
Io e mia sorella abbiamo seguito papà nelle corse su strada e anche in molte piste di ciclocross. Pure quello è stato un capitolo incredibile! Mentre mia madre andava pregando che appendesse gli scarpini al chiodo lui si ributtava nella mischia, in altre avventure pericolose. Non vi dico quante volte è caduto durante questi 42 anni, l’ultima proprio nel 2019 quando ha compromesso la sua già precaria salute.
Ma ciò non cancella gli anni trascorsi sui pedali. E senza darsi tregua ha scritto anche un ultimo capitolo: quello con la mountain bike. Era fiero di aver fondato insieme a molti dei ciclisti presenti la MTB Formello, fiero di esserne il presidente e di aver realizzato uno dei suoi sogni più grandi: creare una scuola di bicicletta per bambini.
A chi non lo conosceva bene sarà rimasta solo l’immagine di Dino che pedala sui rulli. L’ultimo anno lo ha passato in garage, confinato dentro uno spazio apparente. Incazzato di non poter uscire in strada. Arrabbiato con noi che non glielo permettevamo e con Dio probabilmente che lo aveva punito in quel modo.
Uno come lui che ha davvero percorso i chilometri, e chissà quanti, sarebbe stato bello contarli, non avrebbe mai potuto accontentarsi di pedalare a vuoto, senza vedere un paesaggio, senza sentire l’ebrezza dell’asfalto che corre sotto, senza chiacchierare con i compagni di squadra.
La sua ostinazione è ciò che resta del ciclista che è stato. E la scuola è ciò che resta della sua ostinazione. Ci piacerebbe molto gli venisse intitolata, in modo da rimanere vivo il suo ricordo e ciò che ci ha insegnato.
Emanuela