Makarska non ha la stoffa della grande meta turistica ma il suo porticciolo mi ha fatta ubriacare, non dimenticherò mai le “Cozze alla Buzara”
Tutto il viaggio davanti
Makarska non era la meta e nemmeno era prevista tra le mete. Ma la meta non rappresenta la vacanza, anzi, succede che il viaggio più bello è il percorso, la terra che si attraversa, le persone che si incontrano, le fatalità e l’avventura.
Lungo la strada che da Spalato arriva a Dubrovnik, corre il mare e tante piccole località.
Mi ricordo che alla radio avevamo messo sù, un pezzo di Michael Bublè. Il ritmo jazz sembrava nato per quel paesaggio, per quegli alberi che si alternavano al mare risuonando come tanti bit.
La macchina era rovente, così la strada da cui salivano strati di orizzonti illusori.
Makarska ci apparve davanti. Non che ci fosse molto per cui notarla, solo era chiaro si trattasse di un centro abitato, e per questo provvidenziale. Cercammo un appartamento dove rimanere la notte. E lo trovammo, arrampicato su una collina.
La donna che ci accolse aveva tratti somatici nordici, parlammo con un po’ d’inglese misto a qualche parola d’italiano che, si capiva, aveva il piacere di esibire. Il suo giardino era curato, dei fiori aranciati e violacei spuntavano nelle aiuole, e tra un cespo e l’altro sbucava, di tanto in tanto, un nuvoleggiare di gattini giocherelloni.
Bagnata dal tramonto
Makarska si spalanca al mare in una grande insenatura rocciosa. Si cammina sugli scogli che, in alcuni punti, formano delle piazzole. Il sole ardeva, anche nel pomeriggio, quando ci siamo affacciate su questo angolo di mondo dormiente. Le piazzole erano affollate di corpi distesi, su di loro auree di pace che parevano raccontare di grandi sogni, pensieri galleggianti, estasi.
Piccoli nuclei, come famiglie, in equilibrio dentro uno spazio ristretto.
Dal punto più alto dell’insenatura il tramonto fu una spremuta d’arancio. Così vitaminico per noi che venivamo dall’arsura del viaggio.
Poi la sera penetrò avvolgente, stemperò le tinte calde in pochissimi minuti, scese come il velo di una matrigna che vuole ottenebrare il mondo.
Mangiò l’orizzonte ma, tutt’intorno, il lungo mare si accese, le voci contrastarono i silenzi dell’acqua.
Makarska delle tentazioni
Ho in testa, di questo preciso istante in cui torniamo sulla banchina, un fermo-immagine di me e delle mie amiche incerte sul da farsi.
Eravamo con i residui di roccia e salsedine sulla pelle, i residui di salato tra i capelli, le infradito ai piedi e, negli occhi, persisteva l’immagine meravigliosa dell’arancia di sole che affondava nell’acqua.
In quel momento, tornare in appartamento per cambiarci, voleva significare interrompere quel flusso morbido che si era impossessato delle nostre membra.
Il secondo di incertezza fu davvero un secondo. Ci guardammo e scoppiammo a ridere. Eravamo trasandate ma anche affamate. Girammo improvvisamente direzione e il viale scuro che ci avrebbe portato verso l’appartamento, si illuminò di luci , tra ristoranti e barche ormeggiate sul pontile.
Eravamo stonate con la movida: ci sfilavano vicino ragazze e ragazzi con il vestito fresco della sera, la scia di profumo alle spalle, la gestualità sicura di chi si trova nel posto giusto al momento giusto.
In quei pochi minuti di passeggio stavamo per arrenderci e tornare sui nostri passi, senonché un profumo esaltante di pesce ci si infilò nelle narici. Avete presente quelle scenette dei cartoni animati quando un alone sottile passa proprio sotto il naso dei protagonisti?
Noi eravamo le protagoniste e un marinaio ci stava tentando. Lo cercammo e ci fu evidente che il profumo provenisse da un barcone, dalla poppa, più precisamente, dove intercettammo un fumo di arrosto che saliva a ossigenare l’aria.
Apriti sesamo
Capii cosa provò Ulisse quando le Sirene gli disturbarono la traversata con lusinghe e canti.
Ci avvicinammo a un gruppetto di persone, che sembravano attendere l’ingresso alla nave, e ci accodammo. Quando fu il nostro turno, il marinaio che consentiva l’accesso ci squadrò dalla testa ai piedi. Il suo sguardo deplorevole sui nostri pantaloncini e le magliette con le spalline, da cui spuntavano i costumi, la diceva lunga sul suo pensiero.
“We are very hangry” gli dissi, e non mentivo, era vero, avevamo una fame incredibile. E, quello, mi scrutò negli occhi con aria imbarazzata. Mi parve evidente la sua esitazione ma poi il mio accento pietoso, probabilmente, lo mosse a compassione perché ci fece una smorfia di accondiscendenza a cui seguì il sollevamento del cordone. Ci strappò un bigliettino con il numero del tavolo e ce lo porse senza dire molto. Nel suo mutismo il messaggio era chiaro: entrate ma farò finta di non avervi viste.
Abbiamo riso non so quanto, e non solo in quel momento. Tra i tanti ricordi che ho questo è quello a cui sono davvero legata, quindi spesso lo riesumiamo per riderci su di nuovo.
Seguimmo il fumo.
La griglia della poppa
Salite le scale ci si aprì davanti agli occhi una griglia spettacolare con tantissimi pesci sospesi sul fuoco. Il marinaio addetto all’arrostitura era un personaggio, indossava gli abiti da pirata e sciabolava in aria lo spiedo quando i pesci erano pronti. Ci riempì i piatti di orate e in una scodella rovesciò una quantità di cozze impensata. Le Cozze alla Buzara, così le chiamavano, e avevano un guazzetto che non ho mai dimenticato.
Era speciale, sapeva di mare aperto, di pepe, di storia croata. Le porzioni le sogno ancora. Ci avevano scambiate per tre Gulliver. Anche il pane aveva un formato extra e, per chi è di Roma, lo sappiamo che fine fa il pane con un sughetto del genere. Lo si inzuppa fino a che non tira via dal piatto la parte più saporita.
Non c’erano forchette o coltelli. Affondammo le mani nelle carni del pesce, così il pane -nell’impepata-, profanammo le cozze e, per non fare torto ai boccali di birra -da un litro-, ci riempimmo la pancia di luppolo e spuma.
Una di quelle cene in cui si può pensare di essere seduti a tavola con Aladino perché i sogni si realizzano senza che questi vengano pronunciati.
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Sono prima di tutto una viaggiatrice, annuso la vita e ne trattengo le radici. Quindi scrivo per piacere ma anche per lavoro. Scrivo perché senza non saprei starci. E poi fotografo perché la fotocamera è il mio psicologo personale. Cammino sempre con un animale di fianco, un gatto un cane un cinghiale un ippopotamo. Insomma converso. E poi scrivo di nuovo.