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Tre ricordi del Marocco legati ai bambini

di Emanuela Gizzi
Tre ricordi del Marocco Pht Emanuela Gizzi Mapping Lucia

Nello scrivere questi tre ricordi del Marocco mi ha sorpreso il fatto di averli così chiari, di sentirne esattamente gli odori e i suoni

Come un vecchio ritornello

Perché, questi tre ricordi del Marocco, mi siano rimasti negli occhi, non so dirlo. Sono senza dubbio realtà lontane dalla nostra, quindi colpiscono per la crudezza di alcune situazioni, e sono anche tre posti completamente differenti tra loro.

Inoltre sono davvero istanti, dei flash, una manciata di minuti in cui però, evidentemente, è maturato qualche pensiero.

Ma i viaggi sono così. Dico sempre che hanno effetti collaterali. E quando lo dico non penso a l’accezione negativa del termine: le emozioni sul momento sono emozioni, è al ritorno, nella nostra comfort-zone, che diventano consapevolezza.

Se, dopo diversi anni, mi tornano alla mente questi dettagli, significa che il viaggio ha abbattuto delle barriere e è entrato dentro al petto con forza. E poi si è preso il suo tempo. È rimasto lì, come un vino che ha bisogno di posarsi per raggiungere la giusta sapidità, il giusto equilibrio.

Questi flash a un certo punto iniziano ad accendersi e spegnersi nella testa. Intermittenti. E allora credo che se pure non raccontino di paradisi terrestri debbano in qualche modo essere liberati, restituiti così come li ho vissuti.

Un buco

Il primo, tra i tre ricordi del Marocco è legato a un bagno. Un wc. Fatiscente, microscopico, non ci sarebbe entrata neanche una formica. Era il wc di un negozio, altrettanto piccolo e sporco, da colera, anzi, che si trovava lungo una strada polverosa, piuttosto dimenticata. Il conducente del minibus su cui viaggiavo, non vedendo altri servizi lungo la strada, ha fatto tappa in questo buco del mondo. Dovevamo comprare dell’acqua e andare in bagno. Sapete questi luoghi di passaggio, con le insegne penzoloni, i fili aggrovigliati, le imposte chiuse, dove solo il vento sembra presente? Io ero a fare pipì in un bagno turco così, dal puzzo terrificante, incrostato di ruggine, pregno del passaggio di miliardi di respiri e di altre situazioni meno poetiche, privo della carta igienica, soffocante. Ho ancora in gola tutto il respiro che sono riuscita a trattenere.

Il bimbetto solo

Nell’uscire, un bimbetto -sette anni circa- mi porse qualcosa. Io lo guardai poi guardai la pallina che aveva in mano. Non capivo cosa volesse dirmi, per un secondo mi sembrò volesse giocare. Era in quella stanza orribile a guardare la gente entrare e uscire dal bagno. E non piangeva, non rideva, non mangiava, non aveva intorno una mamma o una nonna che badassero a lui.

Non avevo nulla da dargli per farmi perdonare. Sentii la mia italianità un peso, in quel momento.

Provai cosa vuol dire essere infelice. Lo ero per lui e anche per me che avevo avuto un’infanzia migliore della sua e, come cittadina del mondo, non ero in grado di strapparlo a quella miseria.

Riuscii ad allungare verso il suo sguardo silenzioso solo una salvietta imbevuta di detergente. Aveva il viso livido di sporcizia e il muco che gli pendeva giù dal naso. La annusò e ci pulì la pallina, poi le mani e poi si strofinò il viso, stupito. Il bimbetto mi scomparve dalla vista quando il Bus ripartì. L’immagine che ho di quel momento è un asino, carico di doveri, che vagava da solo su quella strada di polvere e sole.

Era un posto assolutamente fuori da ogni cartina geografica, con il proprietario che mi era sembrato il protagonista di un film horror ma anche un pistolero western, e una strada libera per chilometri, davanti ma anche dietro.

E se fossi rimasta lì?

I bambini e le saponette Pht Emanuela Gizzi Mapping Lucia

Il momento shock tra i tre ricordi del Marocco

Il secondo è una Qasba desolata. Ero in visita a un convento. Bene. Esco da questo convento e io, e alcuni altri con cui condividevo il minibus, veniamo circondati da una comitiva di bambini, tra i sei e i dodici anni.

Ci dicono le guide: è normale, si appostano sui marciapiedi quando vedono arrivare gli stranieri.

Il momento in cui si sono alzati da terra, all’unisono, e si sono messi a correre è stato quasi irreale. Mi ricordo lo sguardo che ci siamo scambiati, di sorpresa e poi di imbarazzo e poi di comprensione. Un momento silenzioso. Appena ci siamo mossi verso di loro, i bambini hanno cominciato a sorriderci, toccarci i pantaloni, i capelli, le gonne. Sembravano bambini felici.

Ci si sono incollati addosso, insomma. Sembravamo gli amici che non vedevano da tanto tempo, i fratelli di un mondo diverso, ritrovati. Ci correvano davanti ai passi, dietro alle schiene, non ci perdevano mai, ci indicavano la stradina da imboccare, i passaggi segreti da scoprire, i posti -in cui si intuiva- attiravano i turisti a fare le foto di rito. Delle piccole guide, forse sfruttate da organizzazioni più grandi di loro o solo bimbi innocenti che si guadagnavano la giornata.

I bambini e l’elemosina gratuita

Alla fine del giro turistico, come c’eravamo aspettati un po tutti, allungarono il palmo delle mani, febbricitanti. Gli potevi vedere gli occhi, misti di gratitudine e speranza. Così languidi da muovere a compassione anche una persona algida.  Ma, perché c’è un ma grandissimo, e lo scrivo con un nodo alla gola, non erano in cerca delle monetine tintinnanti o, meglio ancora, delle banconote. No. La cosa agghiacciante è che elemosinavano a gran voce:

Soap, please, soap”.

Speravano in delle saponette. Quelle che si trovano nei kit-bagno degli alberghi. Per lavarsi.

Non eravamo stati avvisati da nessuno e non avevamo molto sapone dietro. Allora tirammo fuori dei colori per disegnare. Li presero ma le loro espressioni erano mute, gli occhi svuotati. Allora, contrariamente a quanto ci era stato detto di evitare -ma non avevamo nient’altro con noi- gli mettemmo in mano dei soldi.

Per lavarci la coscienza, immagino. Perché è insopportabile non poter fare nulla e sapere di stare viaggiando per piacere.

La rivelazione delle saponette fu qualcosa di simile a una lama nel petto. Mio Dio, dov’è Dio mi chiesi, ma non lo dissi, lo pensai solo, perché non si poteva dirlo, ma non si poteva non pensarlo.

Le saponette, per me  -e, penso, per chiunque abbia fatto lo stesso viaggio- sono stata la cosa più scioccante del Marocco.

E se avessi dovuto convivere tutta la vita con tanta miseria?

Tra i tre ricordi del Marocco, i bambini musicantiPht Emanuela Gizzi Mapping Lucia

Sentirsi in Africa

Il terzo posto, invece, è leggero. E, ha a che fare con la musica.

Ero alla mercè di un gruppo turistico quel giorno e, durante un’escursione -mi pare fosse prima di arrivare a Marrakech- fummo quasi obbligati dalla guida a fare scalo in un magazzino ad-stock.

Un capannone gigantesco in cui c’era praticamente tutto l’artigianato africano: lampade, tappeti -soprattutto-, i tajine per fare il cou-cous, le pashmina per affrontare il deserto, chilometri quadri di scaffali e sale espositive.

Una sofferenza questi posti! Ma non fu così tragica. In effetti qualcosa di straordinario accadde.

A me le forzature non piacciono, quindi scesi di controvoglia dal Minibus. Gli altri con cui viaggiavo, non direi. Ma lo shopping non mi affascina mai troppo quando sono in giro a scoprire pezzi di mondo.

I bambini musicanti

Tuttavia, fu un momento -tra i ricordi del Marocco- che mi è rimasto impresso e non certo per lo shopping.

L’accoglienza che ci riservarono fu incredibile.

Ci fecero sedere in una grande sala, attigua al magazzino. Per un attimo ci guardammo interdetti, non capivamo. Poi un gruppo di uomini e bambini, che portavano dei saii bianchi , entrarono in fila e si disposero lungo la parete lasciata libera. Tenevano tra le mani strumenti simili alle nacchere spagnole che cominciarono a far schioccare, esibendo suoni tribali. Tamburellavano il ritmo, e poi lo spezzavano con il sibilo dei flauti, e frapponevano tra l’uno e l’altro il battito di mani. Sembrava che la musica gli appartenesse da sempre.

Quei canti parevano evocare il deserto, i balli delle tribù africane, avevano una grana pura, anche filosofica.

E infatti, la guida ci spiegò che celebravano gli animali del deserto, i cammelli, i serpenti.

Per un occidentale non è facile da comprendere: da un lato, si assiste a un’idolatrazione di grande potenza espressiva, dove gli animali siedono metaforicamente su un trono e, dall’altro, ci si imbatte in quello che noi definiamo maltrattamento sugli animali, dove il ruolo è quello di una bestia sottomessa. Tipo l’immagine dell’asino che trasporta sassi.

E se fossi nata in Marocco?

 

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Sono prima di tutto una viaggiatrice, annuso la vita e ne trattengo le radici. Quindi scrivo per piacere ma anche per lavoro. Scrivo perché senza non saprei starci. E poi fotografo perché la fotocamera è il mio psicologo personale. Cammino sempre con un animale di fianco, un gatto un cane un cinghiale un ippopotamo. Insomma converso. E poi scrivo di nuovo.

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