Home FOTOROMANZA Badija come dire miele come dire api

Badija come dire miele come dire api

di Emanuela Gizzi
Badija dei pini PhotoCredit Emanuela Gizzi Mapping Lucia

Badija è stato frutto di un contrattempo, l’espediente per rimanere nudi con la natura, l’occasione per incontrare animali altrimenti inavvicinabili

L’idea di un korculese doc

È una miniatura il posto in cui vi porto, si chiama Badija. Ero partita con due mie amiche, stavamo risalendo la Dalmazia via mare, da Dubrovnik verso Spalato e, mi ricordo, per alcuni giorni fummo costrette a rimanere a Korcula, una delle isole grandi della Croazia.

E tutto per un mancato passaggio di traghetti. Un misunderstanding direbbe un inglese.

Non eravamo abituate ad alloggiare più di due notti nello stesso posto ma fortunatamente i ragazzi, moglie e marito, che ci avevano affittato l’appartamentino, ci suggerirono alcune destinazioni carine per non restare deluse dall’accaduto.

Ci parlarono di un’isoletta, ripetevano “del miele, del miele” e, all’inizio, pensammo si trattasse di un posticino romantico -per neo sposi in luna di miele- ma, ci dissero “no, miele da mangiare”.

Allora fu logico supporre si trattasse di Mljet, l’isola famosa per avere ospitato Ulisse -per ben sette lunghi anni-, il cui nome, appunto, significa miele.

Ci indicarono un nome sulla cartina. Badija. Un posto di cui non avevamo sentito parlare e di cui non avevamo scorto troppe descrizioni sulle guide, quindi lontanissima da tutti i nostri progetti pre-partenza.

Il ragazzo insistette per accompagnarci, aveva un piccolo motoscafo, ci disse che non era un problema per lui portarci fin lì e che sarebbe tornato a prenderci la sera. “Alle sette puntuale” disse “il tramonto è  bellissimo da quelle parti”.

Noi ci siamo guardate, ci siamo domandate cosa ne sarebbe stato di noi se non fosse tornato a recuperarci.

Ho questa immagine tenera di noi tre, un ritratto che mi fa ancora molto sorridere: lo salutavamo dal molo, le mani sventolanti, poco convinte dell’idea che aveva avuto.

Lui invece si sbracciò, sorridendoci, e poi sparì, un puntino piccolissimo in mezzo al mare. Lo guardai andare via come si guarda andare via qualcuno d’importante.

Sinceramente mi terrorizzò l’idea di essere stata mollata lì per l’intera giornata, più che altro senza avere un mezzo di fuga, all’occorrenza.

Badija PhotoCredit Emanuela Gizzi Mapping Lucia

Il molo era deserto

A sinistra sorgeva il monastero francescano, lo avevamo lambito qualche istante prima e mi era sembrato davvero immenso per un’isola così piccola. Il ragazzo durante il tragitto in motoscafo ci aveva raccontato che Badija era anche chiamata Scoglio di San Pietro perché laddove oggi sorgono il monastero, la chiesa, la Cappella della Santa Croce e il Chiostro c’era un’antica abbazia (badia) benedettina da cui appunto prende anche il nome. E pare che questo fatto trovi conferma nel cimitero limitrofo che raccoglie una ventina di pietre tombali con date di morte precedenti la costruzione del monastero.

Il Chiostro pare sia considerato il più bello di tutto il versante Adriatico ma non ci avventurammo, fu più facile scegliere il viottolo che correva sulla riva destra.

L’odore forte che si sentiva, fresco e poi muschiato era dei pini. L’ombra che ci proiettavano addosso, con tutti quegli spilli di luce mi parve così rassicurante. C’era una pace mai sentita.

Erano passate da poco le nove, mi sarei aspettata di incontrare che so, almeno altre pazze come noi, invece il suono dei passi era solo il nostro, le voci anche. I pini sembravano una pittura ad acquarello e avevano questa vitalità infinita e frondosa, non erano i soliti pini impettiti e composti che avevo visti un po’ ovunque. I rami scendevano morbidi e liberi, fino a toccare l’acqua, un’acqua incredibile, turchese, bianca, limpida.

Era fermo anche il mare quel giorno, non c’era lo sciacquettio a riva, non c’erano suoni di bagnanti. Si poteva essere tranquillamente su una strada di montagna se non fossimo state certe che eravamo circondate dal mare.

Acqua di Badija Pht Emanuela Gizzi 1 Mapping Lucia

Incontri da favola

In quell’esplorazione solitaria, improvvisamente, ci trovammo di fronte un cervo. Gli occhi grandissimi, le gambe lunghissime. Ci passò vicino come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se avessimo incontrato il primo abitante di un luogo e quello ci avesse fatto un inchino e avesse proseguito la sua camminata.

Tra noi scoppiò una risata dopo cinque minuti di completo sbigottimento. Ci iniziò a piacere l’esperienza strana, inaspettata.

Non riuscii a fare nulla mentre l’animale si avvicinava a noi, restai in ascolto del suo respiro, e non riuscii a fare nulla nemmeno mentre se ne andava, rimasi lì invaghita della sua delicatezza. Fuggì leggiadro -in direzione opposta alla nostra- ma, pensai, che avremmo dovuto incontrarlo, per forza, facendo il giro dell’isola. Avremmo dovuto, certo. Ma non accadde più. Per un attimo, se non fossimo state in tre, avrei potuto pensare che era stata pura illusione, un effetto soporifero di quel luogo.

Badija e le nuvole d’api

Di nuovo ripiombò il silenzio. Gli aghi di pino si mescolavano alla terra rossa della strada e, quella, sembrava l’unica certezza, perché riuscivamo a calpestarla, a sentirla reale. A un tratto, si spalancò una piatta distesa di roccia lunare che invitava a lasciare quella strada per provare una nuova sensazione. Fu come salire su una nuvola, anche se dura. Fu come camminare su un pianeta della galassia, anche se non eravamo delle astronaute.

La pietra era levigata, emanava un calore avvolgente. Intorno, nemmeno una pulce a pizzicarci. Il mare saliva fino a un certo punto e poi ricadeva giù, lasciando degli aloni che evaporavano subito dopo. Ci spogliammo completamente: non solo perché non c’erano sguardi d’altri ma perché dalle parole del ragazzo avevamo capito che Badija era frequentata da naturisti.

Richiamate da questo pathos selvaggio, ci sdraiammo sotto le carezze del vento lieve e dell’onda di sole.

Non so quanto siamo rimaste così, non tantissimo però. Eravamo assuefatte e grate di essere sole, libere, padrone dell’sola. Ma, a un certo punto, un ronzio come un tormentone si frappose tra noi e l’aria e, nell’aprire gli occhi, capimmo perché la chiamavano l’isola del miele.

Un’ampolla di non saprei dire quante api, ci accerchiò. Attratte forse dagli oli che c’eravamo spalmate? Raccattammo tutto e ci mettemmo in fuga, ma era come se i nostri corpi avessero lo zuccherino, ci inseguirono per un bel tratto di strada.

C’era una misteriosa solitudine in quel luogo, sembrava non esserci nessuno e poi si materializzavano cervi, poi api e chissà cos’altro avremmo visto fino alle sette di sera. Erano da poco passate le 12. Provammo ad accamparci per mangiare, facendo attenzione a non attrarre altri alveari.

Gabbiani a Badija PhotoCredit Emanuela Gizzi Mapping Lucia

Cielo-mare

Fino a quasi metà della giornata siamo state le uniche a goderci le spiagge, l’alberata, gli animali. Poi comparve qualche gruppetto qua e là, animato: dei ragazzi che giocavano tirandosi un pallone, una famiglia sotto un ombrellone che si contendeva una crema solare,  un paio di coppie che amoreggiavano.

Dalla parte opposta alla distesa lunare si apriva una spiaggia di ciottoli, aghi e pignette. Era una culla ma aperta, l’orizzonte sgombro, le chiome dei pini che graffiavano il cielo. Il disegno perfetto di una baia, di quelle che si vedono nelle cartoline dei saluti.

Avrei potuto scriverci

Baci da un limbo in cui l’acqua brilla come se i fondali raccogliessero pietre preziose e l’odore di borotalco addomestica lo spirito”.

Mi sono sdraiata sotto il tronco di un pino e, in quella pace, mi sono addormentata, rosicchiata da qualche insetto, rapita dal silenzio, pacificata nello spirito, distante anni luce.

Le pignette cadevano giù, le raccoglievo e le annusavo e intanto osservavo le tinte del cielo che dal celeste, piano piano, salivano di gradazioni fino a toccare il rosso ciliegia. Era il tramonto.

Arrivammo sul molo qualche minuto in ritardo. Lui, il ragazzo, era attraccato, lo sguardo pensieroso. Si sbracciò di nuovo quando ci vide. Mentre tornavamo verso Korcula il motoscafo passò di fianco a una scogliera brizzolata, non li notammo subito perché si mimetizzavano bene nei colori bianchi e grigi, ma il grugnito del motore li allarmò così si alzarono all’unisono, rapidi. Era uno stormo di gabbiani, gridavano e giocavano in aria, le ali spalancate, il sole rosso all’orizzonte.

La meraviglia assoluta.

Puoi leggere gli altri miei luoghi del cuore raccolti in PhotoRomanza:

I tredici chilometri fino all’Holdermühle      Cabo da Roca, più a Ovest d’Europa

Oppure puoi leggere i luoghi del cuore che mi sono stati raccontati e sono contenuti nella Rubrica “Viaggi Regalati”

Dakar, il luogo del cuore che è tanti luoghi      640 anni a Gemona e non sentirli!      Ritrovarsi a Bosa, tra mare e montagna      L’ultimo corvo del Sacro Speco di Subiaco

 

Sono prima di tutto una viaggiatrice, annuso la vita e ne trattengo le radici. Quindi scrivo per piacere ma anche per lavoro. Scrivo perché senza non saprei starci. E poi fotografo perché la fotocamera è il mio psicologo personale. Cammino sempre con un animale di fianco, un gatto un cane un cinghiale un ippopotamo. Insomma converso. E poi scrivo di nuovo.

Related Articles

Lascia un commento

error: ATTENZIONE il contenuto è protetto!!