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Il viaggio di andata verso il Portogallo

di Emanuela Gizzi
Viaggio verso il Portogallo fonte commons.org

Il viaggio di andata verso il Portogallo è stato uno di quegli attraversamenti lenti che permettono al fisico di riprendere possesso del tempo. Anzi, della sua bellezza

Dalle stelle…

Il viaggio di andata verso il Portogallo sono stati 5.100 Km di custodia del tempo, sia l’andata, che il mentre, che il ritorno. Il ritorno passando per il mare, un imbarco dell’ultimo momento per via di un febbrone da cavallo che non mi ha permesso di guidare oltre. Ero allo stremo delle forze, al quindicesimo giorno di un viaggio pieno.

L’andata invece è stato l’incipit perfetto. Sono partita di notte, l’una all’incirca, e mi sono ritrovata dopo sette ore a Genova.

Alle 10.30 mi stavo facendo spettinare dal vento frizzante della Costa Azzurra.

Scelsi di fermarmi davanti all’Auditorium di Cannes per respirare un po’ di notorietà. E restai lì un momento a immaginare i preparativi, gli addetti ai lavori che, di lì a una settimana, avrebbero srotolato il red-carpet. La comparsa dei riflettori, la folla.

I divi, e il Festival in genere, avrebbero trasformato quella struttura insignificante in una passerella glamour e lo star-system si sarebbe messo in moto da sé. Un po’ mi dispiacque non essere capitata nel bel mezzo del defilé modaiolo, dietro lo strascico delle starlette a godermi il flash dei paparazzi.

C’era un bar, lì di fronte, apparentemente nulla di esclusivo, anzi, era un bar qualunque. Nessun ospite seduto fuori. Nessuna atmosfera intellettualoide, nessun personaggio famoso colto a sorseggiare un drink.

Ho preso un succo all’arancia e divorato un tramezzino. Totale, 15 euro. Apparentemente, nulla di esclusivo. Appunto.

…. all’Archistar

Nel riprendere il viaggio ho sbagliato strada, avrei dovuto proseguire verso Marsiglia, Montpellier, Carcassonne,

Invece mi sono ritrovata sul viadotto di Millau. In quel momento non mi resi bene conto ma, a un tratto, mi sembrò di viaggiare su un tappeto volante. L’effetto “montagne-russe” delle nostre strade italiane, in quel tratto di strada, era un ricordo distante. L’asfalto pareva un velluto e io correvo sopra il paesaggio della Valle del Tarn, come se volassi. Una vera esperienza.

Un ponte strallato (si dice così di un ponte sospeso, retto da cavi) in cui la mano dell’archistar Norman Foster, di cui sono un’appassionata estimatrice, si rintraccia proprio in quell’effetto di sospensione, di ebrezza.

Ma, ovviamente quel lusso “buche free” ebbe un prezzo: iniziarono a spuntare uno, due, tre, quattro caselli, ogni tot chilometri, e una tassa fissa di cinque euro.

Il viaggio di andata verso il Portogallo si fece economicamente impegnativo.

Le ciambelle senza buco

Arrivai a Toulouse nel tardo pomeriggio. Non era esattamente dove avrei voluto fermarmi ma era impensabile attraversare i Pirenei di notte.

Tolosa è una cittadina complessa, difficile decifrarne l’anima a quell’ora. Era accessoriata di mille luci che provenivano dai negozi, degli stand, dai lampioni. C’erano fumi di cibo che offuscavano le strade, odori nauseabondi di cipolla che vagavano indisturbati.

Ho mancato una passeggiata lungo il corso della Garonna e di visitare la Basilica di San Saturnino, una tra le mete più importanti per i pellegrini che percorrono il Cammino di Santiago. Ma, soprattutto, non l’ho vista splendere di giorno, sotto i riflessi del sole. Pare che il mattone rosso-rosato, con cui sono stati costruiti tutti i suoi palazzi e monumenti, le abbia valso il titolo di “La Ville Rose”. Non ho colto la velatura rosa e, inoltre, la stanchezza decimò ogni altra mia curiosità.

Mi sono sistemata in una pensioncina carinissima, piuttosto cara anche, l’unica che avesse ancora delle camere disponibili.

Diciamo che il misero tratto francese è stato dispendioso e frutto di una mancanza di programmazione.

Il viaggio di andata verso il Portogallo inizia in Spagna

Tuttavia la mattina dopo ero di nuovo piena di speranze, pronta a non farmi abbattere dagli ultimi chilometri che mi restavano da percorrere in Francia. Il viaggio di andata verso il Portogallo, nella mia testa, iniziava proprio dal confine spagnolo in poi. E così fu, in effetti.

I Pirenei erano avvolti dalla nebbia, non li vidi quasi, ci passai attraverso senza sentire la loro presenza. Guidavo in una mistura di latte nebulizzato che ingoiava la strada dietro, e quella davanti. Poi a un tratto diradò, come se non fosse mai esistita. E io mi ritrovai dentro un paesaggio spagnolo che nulla aveva a che vedere con quello francese.

La strada, mentre la percorrevo, si allargò, divenne una superstrada e pareva allungarsi, anche. Ad ogni orizzonte che raggiungevo ne compariva uno nuovo. Quella era la strada che mi avrebbe portato fino al confine con il Portogallo. Varcava dei territori immensi, pianeggianti e poi collinari e poi di nuovo pianeggianti, tutti colorati, tutti autentici.

Non pagai pedaggi per quel lusso che era pari, se non addirittura superiore, al viadotto di Millau.

L'uomo che pianatava gli alberi di Jean Gionò

Dalle pagine di un libro

Di qua e di là spuntavano sempre nuovi panorami e io mi sentii così libera, così aperta al mondo. E poi a un certo punto mi resi conto di essere sola, ormai da ore: non incrociai macchine, non c’erano gli omini ai distributori, se mi fossi persa o se la macchina si fosse fermata non avrei saputo come tirarmene fuori. Ma in quel momento l’unico pensiero fu che il viaggio di andata verso il Portogallo era diventato inusuale ed incredibilmente eccitante. Sola, insieme alle sfumature giallo-oro-ocra-verde-marrone che si rincorrevano e poi diventavano improvvisamente colline punteggiate di alberelli a nuvoletta.

Verde e poi giallo e poi viola e poi ancora verde. E mentre il paesaggio mi passava vicino, così pieno di alberi in fila, pensai a un libro “L’uomo che piantava gli alberi”. Una storia bellissima di questo uomo, che da solo e senza il benché minimo interesse o ritorno personale, si era messo ad imboschire un’arida pianura del Canaan, in Provenza, mosso soltanto dall’istinto per la vita. Storia fragile ed emozionante.

Lo stesso, quelle pianure deserte e vive della Spagna. Chissà chi le amava, chi le curava, chi mi stava donando uno spettacolo così tenero agli occhi?

I Tramonti che non dimentichi più

Mi fermai a un chilometro imprecisato di quella landa a respirare il vento proveniente dall’Oceano. Ne sentivo, forte, il richiamo benché fossi ancora molto lontano.

Seguii un cartello che mi condusse in un punto ristoro. Mangiai da schifo e risalii come se fossi in fuga da qualcuno o qualcosa. In realtà avevo frenesia di non perdere tempo, di raggiungere il confine portoghese.

Il momento di maggiore commozione fu quando il sole, che mi aveva accompagnata per tutto il percorso, iniziò a scendere. Quel tramonto mi è rimasto impresso nella memoria. Divenne tutto rosso, tutto bruciato, tutto avvolgente e io fui costretta a fermarmi. Lì, in mezzo alla strada, dentro quel confine di mondo meravigliosamente bello di cui, a volte, ci sfugge la semplicità ma anche la grandezza.

Anche io ero rossa: le mani, i piedi, i capelli. Fu una sensazione cosmica. Intorno a me nessuno per condividerla. Poi si assopì, scese un bluette che mi accompagnò fino all’ingresso in Portogallo.

Castello di Braganca Pht Antonio Amen fonte commons.wikimedia.org

I piedi in Portogallo

Erano le 23,34. Il primo paesino che incontrai si chiamava Bragança.

In un bar, ancora aperto, ho comprato dell’acqua e chiesto ad alcuni uomini -seduti ad un tavolino- se sapevano di una pensione o di un albergo nelle vicinanze. Gesticolavamo, più che altro, perché io non capivo loro e loro non capivano me. Pensai di potermela cavare con un po’ di spagnolo acquisito alle superiori, invece il portoghese era lontanissimo da Hola e Como Estas.

Ripresi la macchina senza avere la minima idea di dove andare. Vidi una chiesa, era in cima a una collina. Mi sono parcheggiata lì davanti. Ero esausta e ho chiuso gli occhi. Non li ho riaperti se non la mattina, quando mi hanno disturbata le prime luci dell’alba. Come un colpo in testa.

Poi mi sono stirata. Mi sono guardata intorno, l’aria era freschissima, ho fatto due passi e sono ricomparsa nello stesso bar della sera prima, stavolta per fare colazione.

Dalle diciotto torri in poi

Alla luce del giorno sembrava tutto cambiato. Anche le persone erano decisamente più affabili, mi indicarono il Castello, mi dissero che la vista da lassù mi avrebbe confortata.

Quel paesino, così quieto nelle strade e anche nel viavai, era stato una fervida Corte sotto i duchi di Bragança. Nel camminare per i vicoli invece pareva culturalmente immobile. In effetti sembrava ferma nel tempo.

Iniziò tra gli orli delle diciotto torri il mio viaggio indimenticabile, tra genti indimenticate. L’unica cosa che non rimpiango è il cibo, quel che ho mangiato l’ho dimenticato volentieri. Ma, tutto il resto, l’aria, gli odori, il colore della notte e il caldo delle giornate, la luce che si rifletteva ovunque, sono pezzi di una storia che mi piace portarmi dietro.


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Sono prima di tutto una viaggiatrice, annuso la vita e ne trattengo le radici. Quindi scrivo per piacere ma anche per lavoro. Scrivo perché senza non saprei starci. E poi fotografo perché la fotocamera è il mio psicologo personale. Cammino sempre con un animale di fianco, un gatto un cane un cinghiale un ippopotamo. Insomma converso. E poi scrivo di nuovo.

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